martedì 25 novembre 2014

Incontri

1. Una mattina qualsiasi, nei meandri della metro di Parigi mi ritrovo dietro una donna molto magra, mi colpisce la sua camminata spavalda leggermente ondeggiante, ha gambe sottili e spalle a punta, i capelli crespi e neri sono tagliati poco sotto la nuca, porta una giacca e un paio di stivali in pelle rossa, il corpo è fasciato da un vestito leggero, la fantasia di piccoli fiori rossi e neri su fondo bianco segue docile i suoi movimenti. Dalla spalla le pende una borsa grigia da palestra in tessuto molle, la poggia a terra subito prima del tornello; con un movimento fluido scavalca la barriera, recupera la borsa e sparisce nella folla del mattino.
All'arrivo sul binario ritrovo la sua figura snella dall'altra parte delle rotaie, ha un portamento altero e il viso vagamente ostile, si dondola sugli stivali rossi al limite della striscia di sicurezza della banchina; dopo poco passa il treno che subito la ingoia ma il ricordo della ragazza mi resta accanto per qualche minuto prima che arrivi il mio turno di salire sul treno.

2. Sono su un sedile in attesa della prossima metro, il tabellone è appena scattato sul minuto 5. «Voi ballate?» dice una voce, troppo vicina per non essere rivolta a me, ed io: «Cosa?», il signore che mi rivolge la domanda è sulla cinquantina: «Sì, voi ballate?», lo guardo meglio, ha la pelle molto scura, della consistenza della grafite e i capelli tagliati in modo regolare sembrano solidi, hanno una forma che mi ricorda quella del bambolotto Ken della Mattel, un po' interdetta rispondo: «Mi succede di ballare» e lui incalza: «Ma certo che ballate, ballate bene, avete le gambe di una danzatrice!», gli lancio uno sguardo sorpreso e mi metto sulla difensiva, lascio vagare lo sguardo sulle mie calze grigie che spariscono negli stivali invernali e faccio spallucce; dalla busta di carta marrone che sta tra i miei piedi sbucano una confezione di spaghetti e una bottiglia di vino rosso, lui continua: «Vai fuori con i tuoi amici stasera?»; è sabato sera e sul binario non sono sola, il tabellone dell'attesa segna 3 minuti e il signore ha gli occhi buoni e un completo grigio, «Vado ad una cena a casa di un amico», allora il tipo mi dice indicando la bottiglia: «Mi raccomando non bere troppo! Non vorrai mica guidare dopo?», all'improvviso mi sembra di parlare con mia madre: «Non si preoccupi, per fortuna ci sono i trasporti pubblici». Lui si siede vicino ma non troppo, da un sedile di distanza continua: «Se si fa troppo tardi cerca di farti ospitare dai tuoi amici, se non puoi e hai sonno fermati prima a prendere un buon caffè e torna a casa con tutta calma», le sue ansie mi fanno sorridere così decido di spostare lo sguardo dai suoi mocassini di pelle lucida e guardandolo gli dico: «Non si preoccupi: non penso di fare tardi».
Il tabellone lampeggia sul doppio zero, passa la metro, lui saluta cordiale augurandomi buon divertimento ed entra in un vagone diverso dal mio.

3. Sono in coda alla cassa del supermercato, davanti a me una signora anziana ha appena sistemato la sua spesa sul nastro, io metto il separatore e poso le mie due cose: pellicola e sacchetti per alimenti, avevo dimenticato di prenderli ieri. Lei ha la pelle pallida e delicata, le rughe sul viso sono sottili ed è piuttosto minuta, rovista nella borsa in modo metodico, in cerca del portafogli; tra qualche secondo sarà il suo turno ma lei si volta e mi chiede: «Vuole passare? Ha solo quei due pezzi», uno sguardo veloce alla sua spesa, non ha molte cose e non vado di fretta, quindi declino gentilmente l'offerta, lei mi fa un cenno bonario e procede nella fila. La cassiera inizia a passare la merce: sette prodotti in tutto, sette.
Poi dicono che i Parigini sono antipatici e gli anziani maleducati, quello è stato proprio un bel modo di iniziare la giornata.

4. L'autobus che prendo per tornare a casa è abbastanza affollato negli orari di punta, insieme a me sale un signore alto, anzi altissimo, sui due metri, non uno di quelli tutti sottili e dinoccolati, questo è proprio un omone con la pancia e tutto il resto, ha intorno ai quarant'anni e sul cranio ha un accenno di calvizie, si vede che non sa dove mettere i piedi e si aggrappa ai sostegni sopra la mia testa; mi sono sempre chiesta perché mettessero quelle sbarre così in alto sugli autobus e oggi a vedere lui ho avuto la mia risposta. Durante il viaggio ci sono alcuni scossoni dovuti alle varie frenate del conducente, c'è molto traffico in strada e ad ogni ondeggiare il tipo si guarda intorno imbarazzato scusandosi per gli inevitabili urti. Al primo sedile che si libera mi fa cenno e mi cede il posto e intanto scivola a fatica verso il fondo dell'autobus. Un paio di fermate dopo lascio il posto ad un signore anziano e vado anch'io verso gli ultimi sedili. Ritrovo l'omone seduto con un posto libero vicino, sembra molto più rilassato ora che ha conquistato un po' di spazio vitale e mentre mi sistemo accanto a lui sorridendo mi dice
: «Si viaggia persino all'interno dell'autobus!», poggia le mani sul grembo e guarda fuori dal finestrino.
A volte penso che vorrei essere più alta, molto più alta, ma poi mi rendo conto che il mondo non è sempre migliore per quelli della sua misura.

5. È la notte bianca, ma la metro chiude presto. Salgo al volo durante il segnale acustico di chiusura delle porte e mi aggrappo all'asta mentre la vettura parte veloce. Alla fermata successiva sale un gruppo di ragazzini sui sedici anni, tutti euforici per la grande serata, iniziano a guardarsi e uno di loro dice a gran voce: «Siamo la Brigata dei Sorrisi, vogliamo i vostri sorrisi. Sorridete per favore... Non costa niente!» Ha l'aria furba e due graziose chiazze rosse sulle guance, i capelli chiari sono spettinati e porta dei jeans aderenti che mettono in evidenza il fisico acerbo; i suoi amici intanto girano per la carrozza: uno fissa una ragazza che subito gli fa una risata leggermente imbarazzata, un altro si mette tra due sedili e a pochi centimetri dalla faccia di uno che avrà all'incirca la sua età dice: «Ah, abbiamo della freddezza qui! Facci un sorriso ragazzo freddo» e quello subito scoppia a ridere stando al gioco. Il capobanda continua a richiedere a gran voce altri sorrisi fino alla fermata successiva, appena le porte si aprono fa un verso rivolto ai suoi amici, scende di corsa e sale sulla carrozza vicina.
Io mi stringo nella giacca e mi tengo il sorriso che mi ha portato quella sera la Brigata dei Sorrisi, li hanno chiesti a gran voce ma non se li sono portati via.

martedì 12 agosto 2014

Il saluto


Mi sono svegliata coi rumori dell'uliveto fuori dalla finestra, un tessuto sonoro di passeri e merli, la luce filtra dalle persiane di ferro e nella stanza fa già abbastanza caldo per restare a rigirarsi nel letto. Ancora intontita alzo il telefono, digito il numero e con la bocca impastata ascolto il suono sordo per qualche secondo, risponde mia nonna, la voce lievemente affannosa di chi si è affrettata verso la cornetta: «Pronto?», il suo timbro dolce ha sempre una nota interrogativa, «Ciao nonna!», in pochi minuti sono invitata a pranzo. Faccio una doccia veloce ed esco di casa coi capelli ancora bagnati.

Entrando lascio un incarto leggero sul tavolo, sono i ravioli ripieni di ricotta e spinaci della pasta all'uovo sotto casa, esattamente tredici ravioli perfettamente confezionati per noi due, con la sfoglia tirata sottile e la farcitura uniforme; in un pentolino microscopico gorgoglia già il burro insaporito con le foglie di salvia fresca e in una pentola bolle dell'acqua salata.
Apparecchiamo la tavola con gesti metodici, interrotti da qualche coccola, mentre parliamo della nostra settimana: il rosario e le pulizie domestiche, l'università e gli amici, i cugini e i nipoti, le vacanze lontane e la sessione d'esame. Io parlo del futuro e lei si emoziona, lei ricorda il passato per me che ascolto avida.
I ravioli fumanti vengono serviti tra una chiacchiera e l'altra, il primo dal gusto delicato sparisce in poco tempo, lasciando nell'aria l'odore del parmigiano, una crosta di pane lucida i piatti. Ci scambiamo uno sguardo soddisfatto e lasciamo una padella a scaldare sul fuoco finché il sale grosso non saltella sul fondo, è il turno della bistecca di sfrigolare sulla superficie rovente e in pochi secondi il secondo piatto è in tavola.

È pomeriggio inoltrato quando lascio la casa, stavolta la nonna ha saltato il riposino perché a furia di parlare il tempo è volato. Arriviamo alla porta con passi esitanti, ci stringiamo in un ultimo abbraccio sul pavimento lucido e ci scambiamo due baci, le labbra premono sulla sua guancia restituendomi il suo profumo dolce e la sua pelle morbida, il cane che ha aspettato paziente sull'uscio per tutto il tempo si stiracchia e mi guarda. Il portone si chiude dietro il nostro incontro.

Qualche giorno dopo siamo a casa dei miei per il pranzo della domenica, intorno alla tovaglia colorata ci sono tutte le generazioni della famiglia: mia nonna, i miei genitori, mio fratello con la moglie e il nipotino, il mio ragazzo ed io. Il pranzo è festoso e l'atmosfera è piena delle nostre parole, ciascuno si serve dai piatti di portata e si gustano i cibi preparati con cura. Il caffè lo beviamo in giardino e si fa a gara per tenere in braccio l'ultimo nato, appena nonna si accosta al piccolo lui inizia a sorridere e quando lei gli parla lui ride e gorgheggia con tutta la pancia.

Un pomeriggio di quasi due mesi fa sono in laboratorio, lavoro al codice Java per il prossimo esame, l'errore c'è ma non riesco a trovarlo, il caldo e l'aria viziata dell'aula non aiutano. Il telefono squilla e dall'altra parte c'è mia madre: «Sono in ospedale a Tor Vergata, nonna non sta tanto bene. Quando finisci di studiare se vuoi vieni a farmi compagnia.», respiro e rispondo: «Okay, tra poco arrivo.», cerco di dare un ultimo sguardo al codice, ma la chiamata mi ha mandato in confusione per cui decido di andare subito.

Arrivata in pronto soccorso trovo mia madre sconvolta, dice che la nonna non apriva alla porta quando è andata a trovarla nel pomeriggio, ha pensato che stesse ancora riposando dopo pranzo, ma alla fine si è convinta a cercare la chiave della casa per entrare. L'ha trovata sul letto, in stato di confusione e ha chiamato di corsa l'ambulanza, il medico di paese nel frattempo le ha prestato le prime cure essenziali.
Ci stringiamo l'una l'altra nella sala d'aspetto, ogni medico che esce dalle porte a vetri ci fa alzare lo sguardo ma passano tante ore prima che riusciamo ad avere qualche notizia; nel frattempo c'è un viavai di parenti, si chiedono tutti com'è potuto succedere così all'improvviso e gli eventi vengono ripetuti e ricostruiti varie volte. Una delle figlie era stata con lei fino all'ora di pranzo, poi di nuovo le parole di mia madre: la chiamata dell'ambulanza, il medico del paese, la corsa in ospedale e questa immensa parentesi di tempo sospesi nello stanzone del Pronto Soccorso.

Dopo ore d'attesa le ante scorrevoli si aprono e il medico ci fa un cenno, ha un'espressione grave ma scandisce le sue parole con garbo e semplicità, dice: «Emorragia cerebrale», «Compromissione delle arterie» e infine: «Coma».
Siamo costernati dall'enormità della notizia, lei è viva ma ci sconsigliano di vederla subito, entro un giorno al massimo sarà trasferita in uno dei reparti e quando la situazione si sarà stabilizzata si deciderà il da farsi.

Il medico ha detto: «Se il suo cervello non fosse stato molto attivo, come accade spesso alle donne avanti con l'età, ci sarebbe stato spazio a sufficienza per contenere l'emorragia senza mandare il cervello in sofferenza», ma lei era più che attiva, era parte delle nostre vite in modo costante e incredibilmente significativo, «dalle vostre espressioni mi pare di capire che invece fosse una donna autosufficiente».
Alle prime non tutti hanno capito il referto, pensano ad un ictus, alla riabilitazione, ad un parziale stato di coscienza recuperabile. Altri pensano alla morte, all'addio che vogliono riservare alla donna tanto amata, al ricordo che ne vogliono conservare.

Il fatto è che si può solo aspettare e vedere.

Per la prima volta dopo anni ho pregato, a modo mio, senza parole rituali che ho smesso di ricordare, solo con la mia voce interiore. Mia nonna l'avrebbe fatto: lei ha sempre pregato per tutti noi, con la sua dolce caparbietà, ha pregato per gli esami, per i dispiaceri e le malattie, per la nostra felicità. E così, in suo onore, ho pregato.

La prima volta che sono andata in ospedale a trovarla ho pianto tanto, non riuscivo a fermarmi nel vedere quella donna energica stesa sul letto. Era assopita e giaceva inerte, una parte del corpo completamente paralizzata, l'altra ogni tanto faceva dei lievi spostamenti. Dicevano che non potesse sentire nulla, così ho pianto senza il timore di intristirla, le ho tenuto la mano, le ho parlato accarezzandole la fronte umida e sono uscita.

Qualche giorno dopo, appena fatto un esame, sono andata da lei per passare un po' di tempo insieme. C'erano già i miei genitori con una cugina di mia madre che le era molto legata, sostiene che mia nonna l'abbia riconosciuta appena ne ha sentito la voce.
Effettivamente ha in viso una luce nuova, sembra vigile. Mi avvicino e le prendo la mano, le sussurro in un orecchio: «Nonna ho appena fatto un esame all'università, ho preso trenta!» Lei fa una smorfia di gioia e mi stringe forte la mano voltando gli occhi vuoti nella mia direzione. Durante quel pomeriggio alternava momenti di immobilità ad altri di movimento come se il suo corpo si stesse risvegliando.

Dopo quella visita le cose sono cambiate, avevamo una flebile speranza. Mi era già capitato di ascoltare racconti di persone in coma, di solito dicono: «Non lo riconosco» oppure «In quello stato non è più lei.», ma mia nonna no, non riuscivo a capacitarmi del fatto che quello potesse essere un baratro senza ritorno.
Lei era ancora lei: spostava la gamba ancora sana fuori dalle lenzuola per cercare il fresco; gesticolava muovendo la mano; sbadigliava ancora con tutta la faccia come faceva spesso quand'era a casa; corrugava la fronte e il mento in una smorfia che le metteva in evidenza le rughe; ma gli occhi restavano vuoti.

I giorni passavano e non c'erano cambiamenti, all'inizio ad ogni piccola novità chiamavamo i medici per farci confortare e quelli con calma spiegavano che era sempre in coma, lievemente vigile ma in coma; ripetevano che i danni erano gravi e guardavano lontano come chi ha visto migliaia di casi analoghi risolversi sempre allo stesso modo.
Non volevano scoraggiarci, semplicemente vedevano come e meglio di noi, che la paziente rispondeva agli stimoli in modo disordinato e del tutto casuale. Iniziarono i preparativi per il trasferimento in una struttura a lunga degenza.

Dopo il trasferimento mia nonna era quasi sempre immobile e le sue interazioni col mondo esterno erano minime, le arterie compromesse non permettevano al cervello una corretta ossigenazione e i tubi dell'alimentazione le provocavano un rantolo continuo.
Forse quel periodo ci ha dato il tempo di abituarci ad una disgrazia tanto improvvisa, ci ha lasciato l'opportunità di congedarci con calma. Le infermiere continuavano a ripetere che non poteva sentire niente, come se galleggiasse in un limbo privo di sofferenze.

Cara nonna, il giorno che ti abbiamo detto addio eravamo in lacrime, ma è stato lieve lasciarti libera da quel lettino con le sbarre. Abbiamo detto addio alla grande donna che sei stata e il modo rapido in cui hai perso coscienza quel giorno è un monito, non della fugacità della vita, ma di quanto tu intensamente l'abbia vissuta.

martedì 1 luglio 2014

La pioggia


Io e la pioggia abbiamo una partita aperta: di solito lei vince, ma forse l'errore è stato mio, non ci si mette contro una cosa come la pioggia.

1. Da bambina, nella casa in cui vivo ancora adesso, la pioggia ha creato i primi problemi. I particolari della storia non li conosco, hanno a che fare con fognature messe a poca profondità, cause vinte coi costruttori, risarcimenti ottenuti, messe a norma non effettuate e altre cose che all'epoca capivo poco.
La percezione che avevo di un qualunque temporale imminente era quella dello stato di calamità: se eravamo in casa si correva in garage a togliere oggetti di valore e posizionare in alto il resto; se invece eravamo fuori, anche solo per la spesa, si rientrava in fretta oppure si restava inermi a fissare il cielo.

Specialmente d'estate, se c'era un temporale, era probabile che il garage si allagasse, di un'acqua scura e limacciosa dall'odore indefinibile che restava per giorni ad aleggiare per la casa, lasciava segni fin oltre il primo scalino e inghiottiva nel suo ventre paludoso tutti gli oggetti lasciati incustoditi.
La vista di quella putrida distesa di melma ha sempre generato un odio sordo, un astio senza nome e un'atmosfera da catastrofe che si è ripetuta per molti anni. I vicini uscivano dai garage con espressioni tristi ma solidali, si faceva la conta dei danni, si ripeteva che non se ne poteva più e si tornava a svuotare, strofinare e disinfettare i pavimenti per ore.

Poi ci sono stati i lavori, quelli classici italiani che si trascinano per mesi, quelli enormi che puoi usare per indirizzare chi cerca la tua casa, come: «Sì, la discesa a destra subito dopo il cantiere», oppure: «Ah, non vedi i lavori? Mi sa che hai sbagliato strada.», quel tipo di lavori che un giorno si portano via il legame che hanno nella tua testa piogge estive e acqua di fogna.
Per anni a seguire i temporali hanno continuato ad avere un certo ascendente sulla mia inquietudine, ma di melma nel mio garage non ne ho più vista.

2. La mia prima auto è stata una Polo verde, ereditata da mio fratello maggiore con una montagna di chilometri già macinati. Ho imparato presto a conoscerla, il volante rigido, il cambio col dente tra la prima e la terza consumato da inserire alla cieca, qualche bozzo e una passione irrefrenabile per il lasciarmi a piedi alla prima goccia di pioggia.
In pratica la mia auto aveva sviluppato un'idiosincrasia per i temporali. Il meccanico diceva che era un difetto del modello, qualcosa a proposito dei carter o delle candele o non so cos'altro, per quel che so io lei odiava la pioggia e questo era tutto.

Un pomeriggio di novembre, al ritorno dall'università, sulla complanare dell'autostrada inizia a piovere forte e si formano le prime pozzanghere, la macchina inizia a singhiozzare indispettita e decide di piantarmi con l'ultimo respiro imbronciato giusto dietro una curva di quella maledetta strada ad alto scorrimento, un camion mi suona il suo disprezzo e tira dritto per la sua strada.
Resto qualche istante terrorizzata a guardarmi intorno e cerco un modo per scendere a mettere il triangolo senza farmi ammazzare.

Un'auto provvidenziale parcheggia dietro di me appena prima della curva con le doppie frecce, scende una signora avvolta in una pelliccia che sembra parecchio costosa, si ripara sotto l'ombrello e si accosta al finestrino: «Va tutto bene cara?» dice ai miei occhi sgranati.
Qualche minuto dopo l'auto viene portata a spinta nel parcheggio di un supermercato vicino; rimasta sola piango sollevata e maledico la pioggia che continua a scendere mentre aspetto che vengano a prendermi.

3. Anni dopo è arrivato Tim, sedici chilogrammi di meticcio tricolore, adolescente, nessuna conoscenza oltre il cemento del canile; l'espressione incredula dei suoi occhi mentre calpesta per la prima volta l'erba del prato, la prima parola imparata: «Corri!», la dolcezza disarmante, lo smisurato amore per le coccole, la paura istintiva e immotivata di: camion dell'immondizia, spari, tubi per innaffiare, motociclette, fuochi d'artificio,autoambulanze, bidoni per la raccolta del vetro, campane della chiesa, aspirapolveri, percussioni varie, carrelli della spesa e ovviamente della pioggia.

È stato allora che la pioggia ha ricominciato a tormentarmi, in modo sottile e imprevedibile: se ci coglieva un acquazzone Tim faceva lo sguardo smarrito e cercava di infilarsi sotto qualche auto oppure di trascinarmi con tutte le sue forze verso casa o in un buco qualunque per rintanarsi a tremare come una foglia; la sua paura lo gettava in un baratro nel quale era difficile comunicare.
Le prime volte che è successo ero smarrita, come e più di lui.

Tim è un altro cane adesso, un adulto equilibrato in grado di distinguere le corse libere sui prati dalle passeggiate composte al centro commerciale, si gode i tuffi nel laghetto fangoso ma anche le attese pazienti in un angolo del camerino mentre provo un vestito, ha vissuto con me molte avventure e col passare dei mesi e degli anni sono sparite quasi tutte le paure, tramutate prima in diffidenze, poi ignorate, infine proposte in modo giocoso.
Ma la pioggia no, lei non è nostra amica: se siamo insieme e piove mi guarda fiducioso, cammina vicino a me e affrettiamo il passo verso il rifugio, ma se inizia a tuonare le vecchie ansie tornano a tormentarlo fin dentro casa.

4. Nei primi anni dell'università, un'estate tra le tante, mi trovo a Budapest, su un'isola al centro del Danubio, allo Sziget Festival insieme ad una di quelle che è ancora una delle mie migliori amiche; l'atmosfera è incredibilmente bella e festosa, ci perdiamo tra le stradine polverose ad osservare le bancarelle, si spendono i soldi della nuova valuta per un costume colorato e vestiti più comodi e adatti all'occasione, balliamo trascinate dal ritmo di una banda di percussionisti itineranti, respiriamo l'odore di cannella dei dolci appena sfornati, osserviamo incuriosite le tende variopinte e i loro abitanti, dividiamo qualche sorso di un vino rosso un po' forte in attesa di un concerto rock, il cantante sul palco fa un discorso sulla costipazione da campeggio e il pubblico annuisce ridacchiando, si riconosce il tanfo di piedi ed erba dei giovani campeggiatori, ondeggiamo e saltiamo al ritmo della musica elettronica in una stanza piena di acqua vaporizzata, ridiamo e viviamo su quel lembo di terra.

Nel pomeriggio dell'ultimo giorno ci sorprende un vento impetuoso e improvviso, l'aria cambia velocemente odore e si percepisce l'umidità della pioggia in agguato. Ci ripariamo sotto la pensilina di uno dei tanti chioschi, ma quando la pioggia inizia davvero, sottile e tagliente, insieme a quel vento che non cessa, serve a poco ripararsi.
Nel frattempo le persone sotto la pensilina aumentano e mentre all'inizio era un sollievo farsi coprire da qualcuno davanti, dopo qualche minuto il senso di soffocamento prende il sopravvento.

Di quel giorno mi ricordo che scappavamo tra le strade fangose mentre i cartelloni del Main Stage venivano strappati via dal vento, la folla di tutti quelli che correvano, impreparati alla ferocia di quella pioggia improvvisa, la fila per ottenere due sacchi dell'immondizia dallo staff, già tutte bagnate, l'odore pungente di aceto e disinfettante dentro la plastica verde e l'attesa per il taxi, la gonna blu del vestito di Serena infangata fino al ginocchio e il sollievo della doccia calda in albergo.
Anche quella volta la pioggia mi ha giocato un tiro mancino.

5. Qualche giorno fa ero al maneggio, una collina alla fine di una strada sterrata, campi e boschi a perdita d'occhio, l'odore di caffè e legno vivo della Club House.
Una giornata così è un vero premio dopo una settimana impegnativa e il passo ondulante di Ermen che mi viene incontro sul prato mi apre il cuore, la mia mano le porge una mela e il profumo del frutto croccante ci avvolge, insieme ci avviamo verso le scuderie e appena ferme il suo muso dai riflessi rossicci si strofina contro il palmo della mano aperta. Il maestro prepara Dhama e poco prima di posare la sella sul dorso inizia a piovere come si deve.

La lezione resta sospesa, ci si dedica alle due cavalle, si districano le criniere e le lunghe code, si rifinisce la peluria dietro le zampe, si striglia e si spazzola più a fondo del solito senza lesinare sulle coccole.
Il tempo non accenna a migliorare, libero Ermen sul prato mentre Dhama viene portata in campo per il lavoro alla corda. La pioggia per una volta non m'infastidisce e resto a guardare i movimenti metodici e dolci tra uomo e cavallo, nel lavoro in piano tutto è giocato su pochi grammi di tensione che legano il cavaliere e l'animale.

Scendo in un altro paddock a prendere l'ultima arrivata, è magra rispetto alle altre e ha un odore più selvatico, il mantello ha un colore particolare, bianco con delle lievi lentiggini rossicce sparse ovunque e appena uscita divora famelica tutto quello che le capita a tiro. Prendo la strada che porta alle scuderie con calma, indicandole i ciuffi più belli da carpire lungo il tragitto. Menna ha gli occhi buoni e sul campo lotta contro le resistenze di una vita, per recuperare un equilibrio prezioso che speriamo riesca a conquistare; ha fiducia nell'uomo, magari non in ogni uomo, magari solo in quest'uomo qui che la mette alla prova con mano gentile e i suoi occhi buoni non smettono di guardarmi.

La calma che ho provato, sotto la pioggia, la porto ancora dentro. Non posso dire che abbiamo fatto la pace, ma forse è l'inizio di una tregua duratura.

sabato 31 maggio 2014

Racconto di famiglia



Mia nonna è una donna speciale e piena di difetti, come tutte le vere donne, incredibilmente moderna nonostante il fatto che la sua data di nascita risalga a quasi un secolo fa.

La vita che conduceva con mio nonno era semplice e modesta, avevano un legame della tempra più solida, costruito sull'amore e sul rispetto, una di quelle coppie follemente innamorate che erano rare persino allora, ai tempi in cui si conobbero alla Fiera del Ponte di Poggio Mirteto.

Tre figlie femmine, una nidiata di nipoti e pronipoti. Tutti accolti con gioia e serenità, nonostante i sacrifici. Nonostante la guerra avesse scavato le sue cicatrici.

Da quanto mi ricordo tutti noi nipoti abbiamo sempre trovato un rifugio in casa sua, una parola gentile, un abbraccio affettuoso e profumato, e tanto tantissimo buon cibo scelto con la cura che solo un vero contadino può avere. Le giornate passate da lei coi miei cugini. Appena arrivati al mattino uscire di casa per la spesa e tornare con la pizza calda di forno, fragrante, pomodoro, alici e mozzarella, tagliata in piccoli triangoli dalle mani premurose della nonna.

Giocare liberi nell'orto sotto casa, pronti a cogliere la novità del giorno: i pulcini appena arrivati; le albicocche da raccogliere ancora calde di sole; le nocchie da schiacciare sotto i sassi; la grotta fresca in cui nascondersi; i mille attrezzi del nonno e gli scarti dei suoi lavori con cui inventare nuovi giochi; scoprire il tepore intimo che emana una gallina mentre cova il suo uovo e tuffare la mano nel sacco delle granaglie; il sapore strano dell'acqua bevuta dal tubo di gomma e quello dolce delle fragole color rosa pallido che non esistono più.

Gli occhi sgranati di mio fratello sul balcone: guarda delle piccole piante verdi, tutte in fila nei loro vasetti, accanto al finocchio selvatico messo a seccare, passa la mano sulle foglie, annusa, riconosce la pianta e dice a mia nonna: «Pensa quanto pane e pomodoro potremo farci!»

I ricordi non smettono di tornare in mente, come un fiume in piena: mio nonno in ospedale per la riabilitazione dopo l'ictus, mia nonna in un altro ospedale si è appena fratturata una gamba. Probabilmente non avevano mai passato una notte lontani da moltissimi anni. Lui al telefono con lei: «Come stai amore mio? Ho tanta voglia di abbracciarti. Quando ti rivedo voglio una corda per legarci insieme stretti stretti e non lasciarci mai più. Ti mando un bacio ma le labbra non mi scrocchiano, sono troppo secche che ho la febbre.» Intorno ai due letti, nei due ospedali, gli occhi lucidi di figli e nipoti.

E poi la sua vita che conosco dai racconti, pur non avendola vissuta al suo fianco. Mia nonna è nata da una stirpe di inventori e poeti che per vivere facevano i contadini, non erano ricchi e non possedevano la terra che lavoravano, le donne di famiglia dovevano essere delle dure dato che la mattina del parto sua madre era arrampicata su un albero a fare erba per i conigli e lei non era da meno, a nove anni fu trapiantata presso una zia in campagna per badare ai bambini, lì prese i pidocchi, corse in giro per il podere a cavallo o in bici, si fece donna.

Proviene da un'epoca in cui dire ad una donna «ti trovo ingrassata» è un complimento, perché significa che non patisci la fame e non sei malata.

Della sua generazione ha preso il senso pratico e il timore religioso. È sempre stata una cuoca straordinaria e non dimenticherò mai il giorno in cui mi disse: «A volte mi chiedo se tutto questo amore che provo nel cucinare non sia peccato», si preoccupava della sua anima.

Eppure con noi era molto indulgente: le ore passate al telefono da Parigi con lei, la sua voce emozionata quando scopriva che a chiamarla ero proprio io, così lontana; i consigli dati ad ogni nipote per gli affari di cuore e i dispiaceri quotidiani; il suo modo di capire i problemi moderni e antichi di tutti noi.

Una donna che è parte della mia solidità, che spero di aver il privilegio di avere al mio fianco, in salute, per ancora molto tempo.

lunedì 21 aprile 2014

Esorcizzare

Esorcizzare. Ovvero: come ho deciso di tornare nella città della catastrofe per tentare di riscrivere le note a margine del posto in questione.

Per chi non lo sapesse la mia personalissima città della catastrofe è Parigi: la meta degli innamorati, la capitale del romanticismo, la sede delle borse erasmus per matematici e informatici di Tor Vergata. Ma andiamo per ordine.

Parigi

Qualche anno fa, in triennale, feci domanda per la borsa e fu talmente facile che senza rendermene conto avevo già un appartamento mostruosamente grande per gli standard locali ad un prezzo più che dignitoso sulla stessa linea di metro della facoltà; un conto corrente in cui la banca francese aveva generosamente versato 80 euro di benvenuto; l'orario delle lezioni da frequentare e un'enorme città da scoprire che mi strizzava l'occhio da dietro i vetri della cucina.

Ero la ragazza che girava coi pattini a rotelle e non saltava le lezioni; il lunedì ascoltavo il Jazz Manouche al Piano Vache, col barista che inveiva contro chi parlava durante l'esibizione; ho mangiato con gusto l'escalope de veau montagnarde di Chez Gladines e il confit de canard del Cafè de l'Industrie; ho ballato musica gitana insieme alla mia coinquilina su un battello lungo la Senna; ho marciato per ore felice alla Techno Parade sorpresa dalla miriade di colori ed espressioni della folla pulsante; ho fatto judo imparando a parlare il Verlan dagli altri atleti della facoltà; ho pedalato in minigonna jeans al ritorno da una festa mentre cadeva la prima neve dell'anno; ho eletto a luoghi speciali una gran quantità di angoli del suolo parigino e sono ancora tutti lì nel mio cuore, lo giuro.

L'esperienza che ho avuto è stata decisamente di quelle che ti cambiano la vita. Ma non in modo riduttivo, uno di quei percorsi che ti ribaltano il cervello come un calzino e che mescolano le carte a tal punto che ci metti quasi due anni a riprenderti.

Vivere a Parigi è stato incredibile, mi ha dato la sicurezza che mi serviva per piacere a me stessa, con la mia faccia e il mio corpo, una parte di quella scintilla che mi contraddistingue la devo alla grande città grigia.

La quiescenza

Il dopo è un'altra storia però: al ritorno il mio conto in banca era vuoto; la mia media universitaria era colata a picco, nonostante i 27 onestissimi crediti conseguiti; avevo chiuso una storia di due anni nel modo peggiore possibile, senza possibilità d'appello e mi trovavo nella mia casa di sempre, coi miei genitori, a cercare di recuperare un qualche equilibrio di convivenza.

Se devo dare un nome a quel lasso di tempo lo chiamerei quiescenza, ma solo perché depressione suona male e viene spesso frainteso con qualcosa di diverso. Per due anni sono stata totalmente incapace di verbalizzare esami universitari, ho sentito il senso di fallimento incombere ogni giorno su di me senza riuscire a reagire, mi sono sentita persa, inutile e insofferente, con una grande voglia di indipendenza non corrisposta dalle mie possibilità economiche.

Ma dato che questa non è la storia di una post-adolescente suicida, dato che questa è la mia storia: ce l'ho fatta!

Due anni e spicci dopo ho scacciato gran parte dei miei spettri, mi sono nutrita delle loro carcasse e ne conservo un buon ricordo; ho trovato la particolare forma di pazzia che mi calza come un guanto e imparato a diffidare della normalità e della perfezione di una vita che non vorrei più; ho elaborato un lutto per me molto significativo e conquistato un rapporto speciale col mio cane Tim, col quale spero di condividere più tempo possibile e di qualità negli anni a venire; ho lavorato duramente per mettere da parte un po' di soldi e mi sono laureata verbalizzando sei esami nell'ultima sessione utile.

Mi sono innamorata perdutamente di un uomo ed è davvero impossibile spiegare per quanti motivi tutto questo mi renda felice, così incontenibilmente prezioso che a pensarci mi viene da piangere e da chiedermi se me lo merito. Ho iniziato la magistrale e mi piace quello che studio, in qualche misura mi riesce bene e mi lascia spazio di manovra per avere una vita sociale. Ho ricominciato ad andare a cavallo, l'equitazione è la mia stanza senza pensieri in cui la mia mente si rilassa e il mio corpo si fortifica, un posto meraviglioso in cui nutrirsi di sole ed empatia. Ho imparato ad accettare che alcune persone partono e che per fortuna con quelle importanti i rapporti non cambiano nemmeno a distanza. Ho ricominciato ad apprezzare la presenza dei miei genitori nella casa in cui vivo e mi rendo conto di essermi sempre sentita al sicuro, nonostante tutto, per merito loro.

La domanda

Qualche mese fa, mi arriva la consueta e-mail sull'orientamento degli studenti erasmus: ogni anno, durante un primo incontro informativo, l'università chiede a chi ha già partecipato al programma di scambio di mettersi a disposizione per raccontare la propria esperienza e rispondere alle domande di chi vorrebbe partire. In un primo tempo ho risposto distrattamente, perché la riunione coincideva con un esame, ma alla fine, dato che l'esame non era finito troppo tardi, ho deciso di andare.

Inaspettatamente ho scoperto che da quest'anno si può rifare domanda e quasi senza rendermene conto ho vinto la borsa e spedito i documenti a Parigi per partire a settembre; ho letto l'offerta formativa e scelto alcuni corsi, ho già un relatore di tesi nell'università che mi ospita e un ottimo relatore interno qui a Roma.

Ma. Parigi fa ancora paura, col suo carico di ricordi agrodolci. Parigi è una città costosa e piena di burocrazia. Temo di non essere all'altezza degli esami e di perdere del tempo che non posso permettermi. Parigi è sulla lista nera delle città per i cani: potrebbe essere impossibile trovare una casa, i cani non sono ammessi su metro, autobus e in una parte dei parchi pubblici (di locali e musei neanche a parlarne), il viaggio è lungo e faticoso. Sarò sola e almeno all'inizio dovrò capire come funzionano le cose.

Questo è quello che mi passa per la testa in questi giorni e non so se scendere da questo treno sia una buona idea, esattamente come non so se questo viaggio mi porterà a raggiungere i miei obiettivi.

A casa è sicuro. Mi sento tranquilla del lavoro che devo svolgere. Ed è bello avere stabilità. Il percorso a Parigi mi entusiasma, accademicamente ho l'opportunità di crescere molto e iniziare a scrivere una tesi internazionale. Posso esorcizzare le mie paure e trovare la mia strada, anche se partire non è quella più facile, posso costruire nuovi ricordi positivi e tornare fortificata. Non sono la stessa persona di qualche anno fa, sono molto più matura per affrontare questa esperienza.

Il punto è che non ho la certezza che sia la scelta giusta.
E, per ora, la mia domanda resta sospesa.

lunedì 17 marzo 2014

La fiamma

Enchanted Doll by Marina Bychkova (http://www.enchanteddoll.com/)
Al mattino la sveglia impostata sul telefono ha un suono metallico, come di un mal di testa pulsante che non si riesce a mandar via, Chiara si alza ancora intontita e si dirige verso il bagno, apre il getto della doccia e aspetta che l'acqua inizi a scaldarsi.

Il bagno è un piccolo regno conteso tra i coinquilini, ciascuno col suo spazio per lozioni, lamette e prodotti per il corpo; la lotta più ardua è per il posto degli asciugamani, con cinque coinquilini ed un solo bagno si è spesso costretti a stenderli in salotto. L'asciugamano per la doccia di James è l'unico che ha conquistato di diritto il pomello vicino alla porta, nessuno si azzarda a toccarlo dato che da quando è nell'appartamento non è mai stato lavato, al limite gli è stato concesso di asciugare lontano dall'umidità del bagno prima di essere rimesso al suo posto, a quest'ora di mattina l'odore acre che emana dal suo tessuto di spugna blu scaccia via il sonno e provoca un leggero malessere.

Al ritorno nella sua stanza Chiara è completamente sveglia, si siede sul letto e distrattamente lascia scorrere gli occhi sul disordine che la circonda mentre friziona i lunghi capelli scuri, la sua pelle ha una fragranza fresca e fruttata, possiede una speciale luminosità dai riflessi color pesca, il suo corpo è armonioso e la vita è sottile, i piedi ancora scalzi hanno conservato una vaga forma da bambina, una volta asciutti i capelli lievemente ondulati sono lucidi e setosi e il trucco è stato applicato con metodo in maniera impeccabile.

Appena fuori casa l'aria è umida ma l'odore del prato tagliato di fresco la rinfranca, attraversa il parco osservando con tenerezza due cani che giocano a rincorrersi e passa uno sguardo veloce sui prezzi esposti del piccolo supermercato, arrivata all'ingresso della metro aspira l'aria un'ultima volta e imbocca il tornello serbando per qualche istante quell'ultimo respiro, come se quello fosse il vero inizio di giornata.

In facoltà ha la sua scrivania e passa molto tempo anche in laboratorio, l'università è competitiva e ci sono giorni in cui si sente scoraggiata dall'ambiente ostile, dai colleghi dalla cordialità studiata ad ottenere il suo aiuto, la sua competenza o i suoi risultati, gli stessi che si tramutano in estranei quando è in cerca di collaborazione; l'attesa per l'articolo inviato è snervante e le colleghe che hanno già ottenuto un risultato non esitano a pavoneggiarsi. Per fortuna non è sempre così, l'eccellenza di un'università prestigiosa porta con sé molte persone appassionate e sinceramente dedite a quello che fanno, gente che è riuscita a comprendere che la chiave della ricerca è nella condivisione, che spesso diventano amicizie con cui si ha in comune ben più del lavoro.

Ci si ritrova spesso in sala mensa a chiacchierare e confrontare le idee delle migliori menti, persone così brillanti tutte in un posto, certi giorni possono metterti addosso una tale soggezione tanto che si dubita della qualità della propria intelligenza, certi altri invece in cui si riesce ad avere la giusta prospettiva Chiara si sente al suo posto e si rende conto di quanto il suo lavoro l'abbia portata lontano.

Fuori dal vecchio edificio, mantenuto in maniera impeccabile, pulsa il cuore di una città dai mille volti, un'opportunità con un'ombra di paura. Chiara ricorda ancora di una gita in collina prima di partire per questa avventura nella grande città, i suoi timori espressi all'amica misti all'emozione di partire, la voglia e l'ansia di strappare la proprie radici per affondarle in una terra nuova.

Mentre cammina per la strada percepisce sulla pelle il contatto con la collanina, la sensazione del metallo del pendente è rassicurante: una pietra iridescente acquistata dai suoi genitori per la quale ha disegnato lei stessa il motivo che la incastona. Agli estranei che incontrano i suoi passi appare un viso di una bellezza particolare, delicata e spontanea; i suoi occhi hanno una forma adatta per i sorrisi, che non mancano mai, spesso quando parla in modo vivace sprigionano una luminosità tutta speciale e l'interlocutore resta a guardarla rapito, ma mai intimorito dalla sua bellezza genuina.

A casa l'aspetta il suo compagno, capelli chiari e broncio accattivante, la bacia e le cinge la vita in modo giocoso chiedendole della sua giornata, non smette di stupirsi della consistenza di quella pelle così perfetta che ti vien voglia di darle un morso e fissa i suoi occhi blu in quelli stanchi ma ancora ridenti di lei; in quella piccola isola di sicurezza si alimenta una fiamma, si costruisce un piccolo mondo al quale tornare per leccarsi le ferite dopo una dura giornata, ma anche per gioire insieme delle vittorie, si condividono cibo e lenzuola, respiri e lacrime, calore e sensazioni, tutto sospeso nell'aria della stanza con vista sul parco.

lunedì 10 febbraio 2014

La bambola

Enchanted Doll by Marina Bychkova (http://www.enchanteddoll.com/)
Nel tardo pomeriggio lo specchio del bagno sembra cattivo, restituisce un riflesso strano dalla superficie appannata per la doccia bollente, un viso rotondo dagli zigomi alti e un corpo diafano; i capelli sono raccolti nell'asciugamano e l'accappatoio di spugna ha un odore di bucato un po' dolciastro. Nella stanza accanto il coinquilino s'è messo a suonare la chitarra, un pezzo nuovo forse, se almeno si cambiasse i calzini non sarebbe tanto male; i suoni dell'appartamento vengono presto offuscati dal rumore dell'asciugacapelli, usato con premura per lasciare che i boccoli non si stropiccino mentre i pensieri volano.

Spesso da bambina le dicevano che sembrava una bambola di porcellana, tanto era bella, se entrava in una stanza tutti gli occhi erano per lei, per i suoi occhi turchesi e i suoi boccoli, per il suo broncio volitivo sulle labbra perfette, per la pelle chiara e delicata, per le mani affusolate dalle rotonde unghie rosate; ogni parente, conoscente, estraneo lasciava il suo complimento, la sua riflessione su questa bellezza particolare e accattivante.
Solo che le bambine crescono e spesso in fretta, si ritrovano a ricevere le attenzioni dell'altro sesso, che non si limita a parlare ma apre un mondo di emozioni e sensazioni, quasi tutte positive e insieme a queste sensazioni si forma una personalità nuova; ogni giorno nello specchio, si cerca un'immagine che ci appartenga, che ci somigli almeno un po'. Una bambina così bella diventa una donna insicura, quasi mai l'hanno lodata per la sua furbizia o per una frase brillante, anche se la sua testa funziona molto meglio della media, lei è quella graziosa ed è difficile deludere le aspettative della gente; se le spunta un brufolo o si sente scombussolata dal suo corpo che cambia sente la tragedia incombere, perché le bambole non hanno imperfezioni.
Così nasce il suo rituale allo specchio, amico e nemico, alleato e giudice, di tante giornate passate ad osservarsi, a sentirsi inadeguata, nonostante l'invidia delle coetanee ancora acerbe e desiderose delle stesse attenzioni.

Dopo due ore passate a prepararsi, un altro specchio, quello dell'armadio a muro, sembra essere un tantino più indulgente: due occhi turchesi dalle ciglia scure lo osservano, matita e mascara ne sottolineano la bellezza, ha delle sopracciglia da principessa delle fiabe e un'aria vagamente altera, labbra rosse e ben proporzionate, lineamenti tra il nordico e il balcanico, ai lobi pendono piccoli orecchini smaltati e ha tre anelli di una foggia simile che manipola spesso durante la giornata. Per la serata ha scelto un maglione ampio, di un colore blu acceso che arriva fino alle ginocchia, prima di uscire lancia un ultimo sguardo allo specchio dell'ingresso, per assicurarsi che quell'aspetto così studiato sia rimasto tale, poi si lancia nella notte.

I locali notturni che servono la fascia d'età tra i venti e i trent'anni si somigliano tutti: il bancone è in fondo e sulla parete dietro ad esso sono scritte le birre e gli altri prodotti, di solito col gesso, non sempre col prezzo, in modo che quando si ordina qualcosa basta sbirciare oltre la spalla del barista e pronunciare la propria personale formula magica; la birra viene servita in bicchieri di vetro allungati, ha una fragranza unica e un sapore pieno, di cereali tostati e sole; la luce che si spande ha i toni del giallo, anche se non illumina granché crea un'atmosfera piacevole rispetto alla nebbia che si spande fuori.

Il ragazzo che le siede di fronte sorride e parla di sé, di lei, ogni tanto tira fuori un complimento, sembra affascinato dal magnetismo dei suoi occhi turchesi e dal suo portamento da regina; oltre il suo aspetto c'è un'indole incredibilmente complessa, una forza interiore perennemente in lotta con le proprie fragilità, un istinto di perfezionismo quasi tossico, un'intelligenza pura e vera che nei momenti difficili è stata cruciale per sopravvivere, per restare a galla nonostante tutto; ma questo il tipo non lo sa, vede la bella ragazza, parla e sorride, anche se percepisce un qualcosa che lo intimorisce.
Vittoria non è mai aggressiva, ma nella conversazione ha sempre posizioni solide e ben giustificate, rivela una coscienza sociale e parla con disinvoltura di religione, sesso e femminismo; lui è stupito, si chiede se riuscirà a gestire le cose e magari anche a godere di quella bellezza antica.

Dal tavolo vicino, una ragazza dagli occhi scuri e un casco di fitti ricci esplode in una risata, la luce balena un attimo sui lineamenti olivastri e attira l'attenzione del suo gruppo e anche del ragazzo; Vittoria, come divertita registra la sua reazione, ora che lo osserva senza essere vista si chiede come possa apparire nudo, cerca di collegare i suoi gesti e il suo modo di fare ad altrettante carezze, morsi, attenzioni da ricevere, ha i capelli un po' lunghi e la barba incolta, si direbbe quasi un uomo se non fosse per i vestiti e quella vaga nota incerta nella voce.

Poi d'un tratto si gira, lancia un sorriso storto e manda giù l'ultimo sorso di birra «Ne vuoi un'altra?» chiede, e lei: «Sono a posto, anzi, magari se vuoi andiamo». Escono dal locale e ritrovano l'aria tagliente della città ad aspettarli, lei rabbrividisce e lui allunga un braccio a cingerle la vita, fanno qualche passo in direzione del notturno, lui le lancia uno sguardo, lei risponde col suo, serio e diretto. I passi rallentano fino a fermarsi, la mano di lui accarezza il suo viso e finisce tra i suoi capelli, si stringono in un bacio che brucia le labbra in quell'aria così fredda, un bacio che ha il retrogusto amaro della birra, mescola gli odori e confonde le menti.
Sull'autobus quasi deserto non smettono di guardarsi senza dire una parola, il braccio di lui appoggiato sopra lo schienale, il pollice a sfiorarle la tempia, la attira a sé e la bacia ancora, mordendole il labbro inferiore e poi il collo, solletica col naso il suo orecchio provocandole una reazione improvvisa. D'un tratto afferra il suo polso e la trascina giù dall'autobus, per un pelo.

L'appartamento è modesto e i mobili sono disuguali, il pavimento è di legno grezzo, fatto di listelli scuri levigati dall'uso su cui è piacevole andare scalzi, in giro ci sono libri e spartiti alla rinfusa e nell'aria c'è un odore speziato misto a quello dei loro corpi così vicini. Appena entrati indugiano ancora occhi negli occhi, le mani esplorano sotto i vestiti invernali che docili cadono a terra, i loro movimenti non sono fluidi, non hanno l'armonia di chi si conosce eppure si cercano e si accordano ad ogni istante. Nella testa di lei mille immagini del suo corpo in varie angolazioni, lo spettro della perfezione dietro la sua spontanea passionalità dura un attimo, in lui l'urgenza del desiderio rende i baci scomposti e umidi, Vittoria porta una mano dietro la nuca di lui affondando le dita nei capelli, fissa lo sguardo nei suoi occhi scuri e si perde nel presente.

Dopo l'amore restano distesi, come due estranei dopo un naufragio sullo stesso lembo di terra, esausti per i baci, i gemiti e i sussurri, una mano scorre ancora sulla pelle liscia di lei, la testa posata nell'incavo della spalla del tipo che la guarda soddisfatto e dice: «Quanto sei bella!», lei alza gli occhi al cielo in un istante impercettibile ma non gli nega una smorfia di compiacimento, non può certo immaginare quanto questa frase possa dolcemente e inesorabilmente rovinare un'esistenza, nello scorrere del tempo che verrà a portarsela via.
Lascia un bacio leggero impresso sulle labbra del nuovo amante, prende per sé il lenzuolo e con un sorriso s'infila in bagno; alla luce della lampadina che pende dal soffitto cerca sé stessa nello specchio opaco sopra il lavabo, la perfezione è sempre lì, anche se con i capelli in disordine e le labbra arrossate, il getto dell'acqua è freddo e l'asciugamano è ruvido al tatto, ma queste sensazioni la rendono più viva dopo il languore del sesso.

Tornata nella stanza spegne la luce e s'infila di nuovo nel letto ritrovando quell'odore particolare della pelle di lui che insieme ai denti bianchi e regolari l'aveva indotta ad accettare l'invito di quella sera, un profumo persistente di cuoio e pepe macinato, troppo strano per non essere notato, uno di quelli che arrivano dritti al cervello, che ti stordisce se riesci a non odiarlo; lo aspira portando il naso sul suo collo e di nuovo si stende accanto a quel corpo forte, impercettibilmente più caldo del suo, che rabbrividisce al contatto con la sua pelle. Nella penombra creata dalle luci della strada le lingue si sciolgono e parlano ancora e ancora, per tutta la notte, lasciando da parte quanto lei sia incredibilmente bella.

sabato 1 febbraio 2014

Il rosario

L'aria è così tersa a quest'ora e la luce che inizia a diffondersi non maschera le buche delle piogge sull'asfalto, l'umidità del mattino s'insinua sotto il cappotto e fa cigolare la stampella, il passo è quello spedito della massaia di altri tempi, molto da sbrigare e tanti pensieri tutti rivolti al nido. Solo che il nido è vuoto e il lutto è recente.

Le signore che come lei hanno tante primavere e d'improvviso perdono il marito nemmeno se lo ricordano che vuol dire tornare in una casa vuota, vivere in un posto senza nessuno nella stanza accanto, nel letto accanto, accanto nel letto. Di solito si risolvono a tirare avanti con serenità, a volte più a volte meno, portando sempre un lutto dignitoso.
Lei non è da meno, anche se si culla spesso nel ricordo di quel profondo amore simbiotico che la univa all'uomo che non c'è più; ed è così bella, elegantemente e maestosamente anziana, quando al mattino si lava e indossa sulle forme rotonde la sottoveste di seta avorio, ha una pelle da bambina e profuma sempre di quella meravigliosa crema rosa.

Come ogni mattina la meta è la chiesa in cima al paese, ma si fa sempre più fatica ad arrivarci: le gambe che un tempo correvano, andavano libere in bici e a cavallo non collaborano in modo perfetto, ma la testa è la stessa e quindi si arriva piuttosto in fretta e le donne più giovani non tengono il passo nell'accompagnarla.
La messa dei giorni feriali è intima, spirituale, semplice e antica; le anime del paese si raccolgono per dire il rosario con voci cantilenanti e alla fine si sciolgono dal lungo abbraccio della chiesa spoglia e tornano alle loro case.

Nel tragitto del ritorno le vedove si scambiano qualche confidenza e qualche parola cortese, spesso semplicemente camminano vicine e silenziose.
Oggi c'è Giuliana che è quasi una signorina, il marito l'ha perso molto tempo fa e il viso asciutto ha ancora poche rughe anche se i capelli sono già tutti bianchi; organizza il gruppo di preghiera prima di lasciare le altre per le commissioni della giornata.

Al pomeriggio le donne si vedono in casa di una di loro per riflettere e pensare ai propri cari, meditano e pregano per un figlio che ha perso il lavoro, una nipote che ha un esame difficile all'università, un parente che ha avuto qualche malattia e nell'intimità di questi circoli cercano di blandire una divinità che sin dall'infanzia è sempre sembrata troppo grande e difficile da capire, in questi momenti aprono i loro cuori e condividono gioie e pene. La dimensione familiare di questa preghiera così pura è tenuta in gran conto da tutto il paese e spesso gli abitanti chiedono alle signore del gruppo di intercedere per qualcuno, di pregare per un congiunto o per loro stessi; anche gli atei rispettano il loro benevolo meditare, come se sui destinatari potesse davvero spandersi un'aura protettiva; è così che le anziane ricoprono una funzione sociale insostituibile.

Quando infine si torna a casa, le pantofole sul pavimento lustro sembrano più comode e gli occhi scorrono lievi sulle foto di nipoti e pronipoti sopra al camino, il primo saluto va all'immagine del marito sul tavolo della sala; poi con movimenti metodici lascia il bollitore sul fornello acceso e rigira tra le mani la bustina del tè al bergamotto, taglia una fettina da un limone e la schiaccia sul fondo di un bicchiere insieme ad un paio di cucchiaini di zucchero, appena l'acqua accenna a bollire spegne e mette in infusione. Il citofono suona e alla porta c'è un nipote intirizzito che è passato per un saluto e un abbraccio, non rifiuta una tazza del tè appena fatto; il giovane si confida con la nonna e lei ascolta, capisce, fa domande e consiglia, insieme tuffano biscotti sottili che profumano di miele ripescandoli al volo col cucchiaino prima che il tè li ammorbidisca troppo.

Da fuori, un piccione sul tetto vicino osserva il chiarore che si spande dalla piccola cucina, non può capire la preziosità di quel microcosmo, ma noi sì.

venerdì 17 gennaio 2014

Se prendessi i mezzi pubblici, scriverei più spesso racconti brevi. Forse.

Sono le sei passate e il binario di Termini non è molto invitante così pieno di fiati diversi che si agitano in attesa della prossima metro. Mi porto dietro una sensazione di caldo e umidità sotto gli abiti che indosso dal mattino. Il vagone è affollato e la consuetudine mi spingerebbe a tuffare lo sguardo in un libro, un po' per proteggermi e un po' per evitare di deprimermi nel constatare che il grosso della popolazione vive dietro uno schermo microscopico.

Stavolta no, stavolta inizio a guardarmi intorno; gli unici che si comportano come me sono gli anziani, ma ci sono grosse differenze tra loro: sono una popolazione pensante e pulsante, piccoli e grossi mantici che popolano gli angoli di questo grande carrozzone che in Italia ci sforziamo di definire mezzi pubblici; le donne di solito hanno labbra disegnate e si guardano intorno con severità; gli uomini tendono ad essere meno attenti a quello che gli capita attorno ma non tutti hanno un'aria bonaria.

Accanto a me c'è un capannello di ragazzi, hanno in corso un dibattito, la ragazzina al centro dell'attenzione chiede cosa rispondere al gonzo di turno che spasima per lei in chat, si discute dell'importanza del punto fermo alla fine di una frase, a quanto pare mettere un punto alla fine di una risposta suona aggressivo e il suo lui su questo è un pochino suscettibile. Vicino a me un signore li guarda di tanto in tanto, affascinato e divertito da quello che gli accade intorno, ci misuriamo indovinando i pensieri e ai lati dei suoi occhi subito compaiono le rughe tipiche di una persona facile al sorriso. Manda un odore simile al legno delle travi misto alla salinità del mare d'inverno, inusuale eppure non mi disturba, le sue mani non sono nodose, ma hanno qualche macchia dovuta all'età e le unghie sono un po' spesse, con qualche imperfezione, sono unghie che parlano di lui, restiamo aggrappati allo stesso palo persi nei nostri pensieri.

Un anziano condivide con noi lo stesso appiglio, è più rotondo dell'altro, un lieve rossore sulle guance, vestito sui toni del marrone come quasi tutti i suoi coetanei, ha un paio di scarpe che hanno l'aria di essere parecchio comode; sul pavimento davanti l'uscita sta uno studente tutto capelli, che scribacchia su un'agenda posata sulle ginocchia. L'anziano tranquillo richiama la sua attenzione, lo avverte premuroso che dalla prossima fermata le porte si aprono dal suo lato e quello arruffato lo ringrazia mettendosi in piedi.

Nei sedili lungo il vagone, proprio vicino a noi, una ragazza si alza e scende portandosi dietro le sue cuffiette verde acido e la sua borsa capiente. Il signore che sorride si siede chiedendo «Sei stanca?», scuoto la testa di rimando aggiungendo: «Per carità, sono stata seduta tutto il giorno», lui è incuriosito e chiede «Università? Lavoro?» e io: «Un corso di formazione», alza un sopracciglio a chiedere di più e mi ripropone quelle rughe attorno agli occhi che sorridono al posto suo, allora continuo: «Sì, per poter poi lavorare», mi fa piccole domande spinto da un'indole socievole e si rallegra nel pensarmi in un futuro con un possibile lavoro sicuro, esprime con le mani che stringono le ginocchia i pensieri di una comunità di lavoratori che osserva il mondo cambiare con una nota di apprensione, ma non traduce in parole questi timori, forse per paura di frenare la mia voglia di fare; solo prima che scenda si premura di salutarmi con un «Buona fortuna!» senza negarmi l'inchino delle sue rughe.

Esco e mi sferza l'aria tagliente della sera, mi stringo nel bavero della giacca attorno al sorriso che mi accompagna fino all'auto, mi riscalda anche se le mani gelate faticano a trovare il buco della serratura, devo esercitarmi anch'io per guadagnare un po' di quelle rughe.

sabato 4 gennaio 2014

Pensiero notturno

Dormirò bene stanotte
ancora abbracciata
all'immagine di noi due
mani nelle mani
con fili invisibili
esplorare sotto le pelli
fino ai ventricoli,
divorarci famelici
per finire poi sazi
occhi negli occhi
a riconoscerci
ancora una volta.

Il viaggio verso casa
ha portato in auto
un pezzo di noi
vagamente riconosciuto
finché ho avuto
un muso amico
a cercarmi la mano,
ora qui sola
mi assale una gioia
che resta qui
e non smette
di cullarmi.