martedì 12 agosto 2014

Il saluto


Mi sono svegliata coi rumori dell'uliveto fuori dalla finestra, un tessuto sonoro di passeri e merli, la luce filtra dalle persiane di ferro e nella stanza fa già abbastanza caldo per restare a rigirarsi nel letto. Ancora intontita alzo il telefono, digito il numero e con la bocca impastata ascolto il suono sordo per qualche secondo, risponde mia nonna, la voce lievemente affannosa di chi si è affrettata verso la cornetta: «Pronto?», il suo timbro dolce ha sempre una nota interrogativa, «Ciao nonna!», in pochi minuti sono invitata a pranzo. Faccio una doccia veloce ed esco di casa coi capelli ancora bagnati.

Entrando lascio un incarto leggero sul tavolo, sono i ravioli ripieni di ricotta e spinaci della pasta all'uovo sotto casa, esattamente tredici ravioli perfettamente confezionati per noi due, con la sfoglia tirata sottile e la farcitura uniforme; in un pentolino microscopico gorgoglia già il burro insaporito con le foglie di salvia fresca e in una pentola bolle dell'acqua salata.
Apparecchiamo la tavola con gesti metodici, interrotti da qualche coccola, mentre parliamo della nostra settimana: il rosario e le pulizie domestiche, l'università e gli amici, i cugini e i nipoti, le vacanze lontane e la sessione d'esame. Io parlo del futuro e lei si emoziona, lei ricorda il passato per me che ascolto avida.
I ravioli fumanti vengono serviti tra una chiacchiera e l'altra, il primo dal gusto delicato sparisce in poco tempo, lasciando nell'aria l'odore del parmigiano, una crosta di pane lucida i piatti. Ci scambiamo uno sguardo soddisfatto e lasciamo una padella a scaldare sul fuoco finché il sale grosso non saltella sul fondo, è il turno della bistecca di sfrigolare sulla superficie rovente e in pochi secondi il secondo piatto è in tavola.

È pomeriggio inoltrato quando lascio la casa, stavolta la nonna ha saltato il riposino perché a furia di parlare il tempo è volato. Arriviamo alla porta con passi esitanti, ci stringiamo in un ultimo abbraccio sul pavimento lucido e ci scambiamo due baci, le labbra premono sulla sua guancia restituendomi il suo profumo dolce e la sua pelle morbida, il cane che ha aspettato paziente sull'uscio per tutto il tempo si stiracchia e mi guarda. Il portone si chiude dietro il nostro incontro.

Qualche giorno dopo siamo a casa dei miei per il pranzo della domenica, intorno alla tovaglia colorata ci sono tutte le generazioni della famiglia: mia nonna, i miei genitori, mio fratello con la moglie e il nipotino, il mio ragazzo ed io. Il pranzo è festoso e l'atmosfera è piena delle nostre parole, ciascuno si serve dai piatti di portata e si gustano i cibi preparati con cura. Il caffè lo beviamo in giardino e si fa a gara per tenere in braccio l'ultimo nato, appena nonna si accosta al piccolo lui inizia a sorridere e quando lei gli parla lui ride e gorgheggia con tutta la pancia.

Un pomeriggio di quasi due mesi fa sono in laboratorio, lavoro al codice Java per il prossimo esame, l'errore c'è ma non riesco a trovarlo, il caldo e l'aria viziata dell'aula non aiutano. Il telefono squilla e dall'altra parte c'è mia madre: «Sono in ospedale a Tor Vergata, nonna non sta tanto bene. Quando finisci di studiare se vuoi vieni a farmi compagnia.», respiro e rispondo: «Okay, tra poco arrivo.», cerco di dare un ultimo sguardo al codice, ma la chiamata mi ha mandato in confusione per cui decido di andare subito.

Arrivata in pronto soccorso trovo mia madre sconvolta, dice che la nonna non apriva alla porta quando è andata a trovarla nel pomeriggio, ha pensato che stesse ancora riposando dopo pranzo, ma alla fine si è convinta a cercare la chiave della casa per entrare. L'ha trovata sul letto, in stato di confusione e ha chiamato di corsa l'ambulanza, il medico di paese nel frattempo le ha prestato le prime cure essenziali.
Ci stringiamo l'una l'altra nella sala d'aspetto, ogni medico che esce dalle porte a vetri ci fa alzare lo sguardo ma passano tante ore prima che riusciamo ad avere qualche notizia; nel frattempo c'è un viavai di parenti, si chiedono tutti com'è potuto succedere così all'improvviso e gli eventi vengono ripetuti e ricostruiti varie volte. Una delle figlie era stata con lei fino all'ora di pranzo, poi di nuovo le parole di mia madre: la chiamata dell'ambulanza, il medico del paese, la corsa in ospedale e questa immensa parentesi di tempo sospesi nello stanzone del Pronto Soccorso.

Dopo ore d'attesa le ante scorrevoli si aprono e il medico ci fa un cenno, ha un'espressione grave ma scandisce le sue parole con garbo e semplicità, dice: «Emorragia cerebrale», «Compromissione delle arterie» e infine: «Coma».
Siamo costernati dall'enormità della notizia, lei è viva ma ci sconsigliano di vederla subito, entro un giorno al massimo sarà trasferita in uno dei reparti e quando la situazione si sarà stabilizzata si deciderà il da farsi.

Il medico ha detto: «Se il suo cervello non fosse stato molto attivo, come accade spesso alle donne avanti con l'età, ci sarebbe stato spazio a sufficienza per contenere l'emorragia senza mandare il cervello in sofferenza», ma lei era più che attiva, era parte delle nostre vite in modo costante e incredibilmente significativo, «dalle vostre espressioni mi pare di capire che invece fosse una donna autosufficiente».
Alle prime non tutti hanno capito il referto, pensano ad un ictus, alla riabilitazione, ad un parziale stato di coscienza recuperabile. Altri pensano alla morte, all'addio che vogliono riservare alla donna tanto amata, al ricordo che ne vogliono conservare.

Il fatto è che si può solo aspettare e vedere.

Per la prima volta dopo anni ho pregato, a modo mio, senza parole rituali che ho smesso di ricordare, solo con la mia voce interiore. Mia nonna l'avrebbe fatto: lei ha sempre pregato per tutti noi, con la sua dolce caparbietà, ha pregato per gli esami, per i dispiaceri e le malattie, per la nostra felicità. E così, in suo onore, ho pregato.

La prima volta che sono andata in ospedale a trovarla ho pianto tanto, non riuscivo a fermarmi nel vedere quella donna energica stesa sul letto. Era assopita e giaceva inerte, una parte del corpo completamente paralizzata, l'altra ogni tanto faceva dei lievi spostamenti. Dicevano che non potesse sentire nulla, così ho pianto senza il timore di intristirla, le ho tenuto la mano, le ho parlato accarezzandole la fronte umida e sono uscita.

Qualche giorno dopo, appena fatto un esame, sono andata da lei per passare un po' di tempo insieme. C'erano già i miei genitori con una cugina di mia madre che le era molto legata, sostiene che mia nonna l'abbia riconosciuta appena ne ha sentito la voce.
Effettivamente ha in viso una luce nuova, sembra vigile. Mi avvicino e le prendo la mano, le sussurro in un orecchio: «Nonna ho appena fatto un esame all'università, ho preso trenta!» Lei fa una smorfia di gioia e mi stringe forte la mano voltando gli occhi vuoti nella mia direzione. Durante quel pomeriggio alternava momenti di immobilità ad altri di movimento come se il suo corpo si stesse risvegliando.

Dopo quella visita le cose sono cambiate, avevamo una flebile speranza. Mi era già capitato di ascoltare racconti di persone in coma, di solito dicono: «Non lo riconosco» oppure «In quello stato non è più lei.», ma mia nonna no, non riuscivo a capacitarmi del fatto che quello potesse essere un baratro senza ritorno.
Lei era ancora lei: spostava la gamba ancora sana fuori dalle lenzuola per cercare il fresco; gesticolava muovendo la mano; sbadigliava ancora con tutta la faccia come faceva spesso quand'era a casa; corrugava la fronte e il mento in una smorfia che le metteva in evidenza le rughe; ma gli occhi restavano vuoti.

I giorni passavano e non c'erano cambiamenti, all'inizio ad ogni piccola novità chiamavamo i medici per farci confortare e quelli con calma spiegavano che era sempre in coma, lievemente vigile ma in coma; ripetevano che i danni erano gravi e guardavano lontano come chi ha visto migliaia di casi analoghi risolversi sempre allo stesso modo.
Non volevano scoraggiarci, semplicemente vedevano come e meglio di noi, che la paziente rispondeva agli stimoli in modo disordinato e del tutto casuale. Iniziarono i preparativi per il trasferimento in una struttura a lunga degenza.

Dopo il trasferimento mia nonna era quasi sempre immobile e le sue interazioni col mondo esterno erano minime, le arterie compromesse non permettevano al cervello una corretta ossigenazione e i tubi dell'alimentazione le provocavano un rantolo continuo.
Forse quel periodo ci ha dato il tempo di abituarci ad una disgrazia tanto improvvisa, ci ha lasciato l'opportunità di congedarci con calma. Le infermiere continuavano a ripetere che non poteva sentire niente, come se galleggiasse in un limbo privo di sofferenze.

Cara nonna, il giorno che ti abbiamo detto addio eravamo in lacrime, ma è stato lieve lasciarti libera da quel lettino con le sbarre. Abbiamo detto addio alla grande donna che sei stata e il modo rapido in cui hai perso coscienza quel giorno è un monito, non della fugacità della vita, ma di quanto tu intensamente l'abbia vissuta.

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