martedì 1 luglio 2014

La pioggia


Io e la pioggia abbiamo una partita aperta: di solito lei vince, ma forse l'errore è stato mio, non ci si mette contro una cosa come la pioggia.

1. Da bambina, nella casa in cui vivo ancora adesso, la pioggia ha creato i primi problemi. I particolari della storia non li conosco, hanno a che fare con fognature messe a poca profondità, cause vinte coi costruttori, risarcimenti ottenuti, messe a norma non effettuate e altre cose che all'epoca capivo poco.
La percezione che avevo di un qualunque temporale imminente era quella dello stato di calamità: se eravamo in casa si correva in garage a togliere oggetti di valore e posizionare in alto il resto; se invece eravamo fuori, anche solo per la spesa, si rientrava in fretta oppure si restava inermi a fissare il cielo.

Specialmente d'estate, se c'era un temporale, era probabile che il garage si allagasse, di un'acqua scura e limacciosa dall'odore indefinibile che restava per giorni ad aleggiare per la casa, lasciava segni fin oltre il primo scalino e inghiottiva nel suo ventre paludoso tutti gli oggetti lasciati incustoditi.
La vista di quella putrida distesa di melma ha sempre generato un odio sordo, un astio senza nome e un'atmosfera da catastrofe che si è ripetuta per molti anni. I vicini uscivano dai garage con espressioni tristi ma solidali, si faceva la conta dei danni, si ripeteva che non se ne poteva più e si tornava a svuotare, strofinare e disinfettare i pavimenti per ore.

Poi ci sono stati i lavori, quelli classici italiani che si trascinano per mesi, quelli enormi che puoi usare per indirizzare chi cerca la tua casa, come: «Sì, la discesa a destra subito dopo il cantiere», oppure: «Ah, non vedi i lavori? Mi sa che hai sbagliato strada.», quel tipo di lavori che un giorno si portano via il legame che hanno nella tua testa piogge estive e acqua di fogna.
Per anni a seguire i temporali hanno continuato ad avere un certo ascendente sulla mia inquietudine, ma di melma nel mio garage non ne ho più vista.

2. La mia prima auto è stata una Polo verde, ereditata da mio fratello maggiore con una montagna di chilometri già macinati. Ho imparato presto a conoscerla, il volante rigido, il cambio col dente tra la prima e la terza consumato da inserire alla cieca, qualche bozzo e una passione irrefrenabile per il lasciarmi a piedi alla prima goccia di pioggia.
In pratica la mia auto aveva sviluppato un'idiosincrasia per i temporali. Il meccanico diceva che era un difetto del modello, qualcosa a proposito dei carter o delle candele o non so cos'altro, per quel che so io lei odiava la pioggia e questo era tutto.

Un pomeriggio di novembre, al ritorno dall'università, sulla complanare dell'autostrada inizia a piovere forte e si formano le prime pozzanghere, la macchina inizia a singhiozzare indispettita e decide di piantarmi con l'ultimo respiro imbronciato giusto dietro una curva di quella maledetta strada ad alto scorrimento, un camion mi suona il suo disprezzo e tira dritto per la sua strada.
Resto qualche istante terrorizzata a guardarmi intorno e cerco un modo per scendere a mettere il triangolo senza farmi ammazzare.

Un'auto provvidenziale parcheggia dietro di me appena prima della curva con le doppie frecce, scende una signora avvolta in una pelliccia che sembra parecchio costosa, si ripara sotto l'ombrello e si accosta al finestrino: «Va tutto bene cara?» dice ai miei occhi sgranati.
Qualche minuto dopo l'auto viene portata a spinta nel parcheggio di un supermercato vicino; rimasta sola piango sollevata e maledico la pioggia che continua a scendere mentre aspetto che vengano a prendermi.

3. Anni dopo è arrivato Tim, sedici chilogrammi di meticcio tricolore, adolescente, nessuna conoscenza oltre il cemento del canile; l'espressione incredula dei suoi occhi mentre calpesta per la prima volta l'erba del prato, la prima parola imparata: «Corri!», la dolcezza disarmante, lo smisurato amore per le coccole, la paura istintiva e immotivata di: camion dell'immondizia, spari, tubi per innaffiare, motociclette, fuochi d'artificio,autoambulanze, bidoni per la raccolta del vetro, campane della chiesa, aspirapolveri, percussioni varie, carrelli della spesa e ovviamente della pioggia.

È stato allora che la pioggia ha ricominciato a tormentarmi, in modo sottile e imprevedibile: se ci coglieva un acquazzone Tim faceva lo sguardo smarrito e cercava di infilarsi sotto qualche auto oppure di trascinarmi con tutte le sue forze verso casa o in un buco qualunque per rintanarsi a tremare come una foglia; la sua paura lo gettava in un baratro nel quale era difficile comunicare.
Le prime volte che è successo ero smarrita, come e più di lui.

Tim è un altro cane adesso, un adulto equilibrato in grado di distinguere le corse libere sui prati dalle passeggiate composte al centro commerciale, si gode i tuffi nel laghetto fangoso ma anche le attese pazienti in un angolo del camerino mentre provo un vestito, ha vissuto con me molte avventure e col passare dei mesi e degli anni sono sparite quasi tutte le paure, tramutate prima in diffidenze, poi ignorate, infine proposte in modo giocoso.
Ma la pioggia no, lei non è nostra amica: se siamo insieme e piove mi guarda fiducioso, cammina vicino a me e affrettiamo il passo verso il rifugio, ma se inizia a tuonare le vecchie ansie tornano a tormentarlo fin dentro casa.

4. Nei primi anni dell'università, un'estate tra le tante, mi trovo a Budapest, su un'isola al centro del Danubio, allo Sziget Festival insieme ad una di quelle che è ancora una delle mie migliori amiche; l'atmosfera è incredibilmente bella e festosa, ci perdiamo tra le stradine polverose ad osservare le bancarelle, si spendono i soldi della nuova valuta per un costume colorato e vestiti più comodi e adatti all'occasione, balliamo trascinate dal ritmo di una banda di percussionisti itineranti, respiriamo l'odore di cannella dei dolci appena sfornati, osserviamo incuriosite le tende variopinte e i loro abitanti, dividiamo qualche sorso di un vino rosso un po' forte in attesa di un concerto rock, il cantante sul palco fa un discorso sulla costipazione da campeggio e il pubblico annuisce ridacchiando, si riconosce il tanfo di piedi ed erba dei giovani campeggiatori, ondeggiamo e saltiamo al ritmo della musica elettronica in una stanza piena di acqua vaporizzata, ridiamo e viviamo su quel lembo di terra.

Nel pomeriggio dell'ultimo giorno ci sorprende un vento impetuoso e improvviso, l'aria cambia velocemente odore e si percepisce l'umidità della pioggia in agguato. Ci ripariamo sotto la pensilina di uno dei tanti chioschi, ma quando la pioggia inizia davvero, sottile e tagliente, insieme a quel vento che non cessa, serve a poco ripararsi.
Nel frattempo le persone sotto la pensilina aumentano e mentre all'inizio era un sollievo farsi coprire da qualcuno davanti, dopo qualche minuto il senso di soffocamento prende il sopravvento.

Di quel giorno mi ricordo che scappavamo tra le strade fangose mentre i cartelloni del Main Stage venivano strappati via dal vento, la folla di tutti quelli che correvano, impreparati alla ferocia di quella pioggia improvvisa, la fila per ottenere due sacchi dell'immondizia dallo staff, già tutte bagnate, l'odore pungente di aceto e disinfettante dentro la plastica verde e l'attesa per il taxi, la gonna blu del vestito di Serena infangata fino al ginocchio e il sollievo della doccia calda in albergo.
Anche quella volta la pioggia mi ha giocato un tiro mancino.

5. Qualche giorno fa ero al maneggio, una collina alla fine di una strada sterrata, campi e boschi a perdita d'occhio, l'odore di caffè e legno vivo della Club House.
Una giornata così è un vero premio dopo una settimana impegnativa e il passo ondulante di Ermen che mi viene incontro sul prato mi apre il cuore, la mia mano le porge una mela e il profumo del frutto croccante ci avvolge, insieme ci avviamo verso le scuderie e appena ferme il suo muso dai riflessi rossicci si strofina contro il palmo della mano aperta. Il maestro prepara Dhama e poco prima di posare la sella sul dorso inizia a piovere come si deve.

La lezione resta sospesa, ci si dedica alle due cavalle, si districano le criniere e le lunghe code, si rifinisce la peluria dietro le zampe, si striglia e si spazzola più a fondo del solito senza lesinare sulle coccole.
Il tempo non accenna a migliorare, libero Ermen sul prato mentre Dhama viene portata in campo per il lavoro alla corda. La pioggia per una volta non m'infastidisce e resto a guardare i movimenti metodici e dolci tra uomo e cavallo, nel lavoro in piano tutto è giocato su pochi grammi di tensione che legano il cavaliere e l'animale.

Scendo in un altro paddock a prendere l'ultima arrivata, è magra rispetto alle altre e ha un odore più selvatico, il mantello ha un colore particolare, bianco con delle lievi lentiggini rossicce sparse ovunque e appena uscita divora famelica tutto quello che le capita a tiro. Prendo la strada che porta alle scuderie con calma, indicandole i ciuffi più belli da carpire lungo il tragitto. Menna ha gli occhi buoni e sul campo lotta contro le resistenze di una vita, per recuperare un equilibrio prezioso che speriamo riesca a conquistare; ha fiducia nell'uomo, magari non in ogni uomo, magari solo in quest'uomo qui che la mette alla prova con mano gentile e i suoi occhi buoni non smettono di guardarmi.

La calma che ho provato, sotto la pioggia, la porto ancora dentro. Non posso dire che abbiamo fatto la pace, ma forse è l'inizio di una tregua duratura.

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